OGGI SU LA NAZIONE L’INTERVISTA AL CARD. LOJUDICE, “LA CHIESA IN PRIMA LINEA CONTRO LA VIOLENZA DI GENERE”
Di seguito l’intervista al cardinale Lojudice pubblicata oggi su La nazione edizione nazionale.
«Anche la Chiesa deve e può fare di più contro la violenza di genere. Investendo, per esempio, sull’educazione affettiva e sessuale che ritengo importante insegnare anche nelle scuole». L’omicidio di Giulia Cecchettin, 22 anni, per mano dell’ex, della stessa età, scuote anche l’istituzione ecclesiale.
Il cardinale Paolo Lojudice, 59 anni, sente il peso della responsabilità collettiva davanti alla piaga dei femminicidi, denuncia «sacche di patriarcato nella società italiana», sgombra il campo da qualsiasi idea di subordinazione della donna all’uomo su base cristiana. E alle vittime di abusi l’arcivescovo di Siena suggerisce di «denunciare» e, qualora non ci siano più margini per una convivenza rispettosa, «di separarsi», perché «l’amore non è mai possesso».
Eminenza, che cosa prova di fronte a un femminicidio con vittima e assassino così giovani?
«Un senso di fallimento dal punto di vista educativo. Se è vero che per fortuna ci sono tanti ragazzi che vivono una relazione affettiva in modo sereno, in questo caso si deve riconoscere di non essere riusciti a trovare il bandolo della matassa di un malessere, o forse di un qualcosa in più, che covava dentro l’animo di questa persona che ha ucciso la ex».
Troppi ragazzi scambiano il possesso con l’amore?
«Non sono in grado di fare statistiche. Di certo viviamo in un contesto culturale che non favorisce i valori autentici del rispetto, della diversità, dell’accoglienza dell’altro. Si è spinti piuttosto a seguire sempre l’istinto, col rischio di non riuscire ad acquisire un pieno dominio di sé».
Esiste un problema di cultura patriarcale in Italia?
«Ci sono ancora sacche di patriarcato, ma, complice anche l’emancipazione femminile, si stanno restringendo. Detto ciò, penso che questi atti di violenza di genere siano soprattutto imputabili ad una diffusa incapacità nei maschi di accettare il fallimento e il rifiuto. C’è molto da lavorare e non è facile: chi esercita violenza in qualche modo prima l’ha subita».
Magari in un contesto famigliare cattolico segnato da un’assolutizzazione della figura paterna e da una subordinazione della donna su base religiosa: come uomo di Chiesa sente una qualche responsabilità?
«In qualche modo direi di si. La Chiesa vive nella società, non è slegata da questa. Nella storia ha avuto i suoi alti e i suoi bassi anche sul tema della condizione femminile. Certo è che la comunità cristiana delle origini è stata tutto tranne che patriarcale, pensiamo a Gesù».
E la considerazione di Eva sottomessa ad Adamo in quanto nata da una sua costola?
«Soprattutto dal Vaticano II in avanti si è favorita una corretta interpretazione di questi passi della Genesi nell’ottica di una pari dignità e complementarietà tra maschi e femmine dopo i fraintendimenti esegetici del passato. Che purtroppo hanno inciso sull’immaginario collettivo. Papa Francesco poi in questi anni ha dato un segnale forte, inserendo molte donne in alcuni ruoli centrali della Chiesa»
C’è ancora spazio per quei confessori che esortavano le mogli a sopportare le botte dei mariti?
«Assolutamente no. Le vittime vanno accompagnate nel denunciare le violenze. E, se non ci sono più margini di convivenza, meglio separarsi».
È contrario all’educazione affettiva e sessuale nelle scuole?
«Tutt’altro, inizierei dalla terza o quarta elementare. L’importante che questo insegnamento non sia svolto in maniera strumentale, non sia limitato al solo preservativo. Purtroppo nelle famiglie non si parla abbastanza di questi temi. Anche nella Chiesa siamo passati dal considerare come peccati solo quelli contro il sesto comandamento al silenzio più assoluto. Forse è giunto il momento di trattare di affettività e sessualità anche nelle parrocchie, in maniera serena».
di Giovanni Panettiere