LE RIFLESSIONI SULL’APOCALISSE DI MONS. BENEDETTO ROSSI

Si sono conclusi a Chianciano, con l’intervento di Mons. Benedetto Rossi, gli incontri diocesani di lectio divina dedicati all’Apocalisse di Giovanni, che erano iniziati l’anno scorso con gli interventi del card. Augusto Paolo Lojudice, di Padre Angelo Maffeis e del prof. Andrea Giambetti.
Di seguito, condividiamo il testo integrale dell’intervento di Mons. Rossi:

 

APOCALISSE

A cura di Mons. Benedetto Rossi

Professore della Facoltà Teologica dell’Italia Centrale e Rettore del Santuario Casa di Santa Caterina a Siena

 

Le riflessioni sull’Apocalisse partono dal brano “Ecco la dimora di Dio con gli uomini. La nuova Gerusalemme Ap 21,1-22,5

Giovanni aveva già presentato i nemici della Chiesa, in tutta la loro capacità di offesa (cc. 12-14); poi, in ondate successive, ne aveva riferito la loro sconfitta (cc. 15-20). Nella nostra sezione (Ap 21,1-22,5) presenta, per contrasto, la Chiesa, fidanzata-sposa dell’Agnello e nuova Gerusalemme. Viene spontanea la domanda: nei cc. 21-22 Giovanni parla della Chiesa dei beati in paradiso o della Chiesa di noi mortali su questa terra? La risposta da dare è semplice e sorprendente: egli parla nello stesso tempo di tutte e due insieme, facendo emergere ora alcuni lineamenti della Chiesa celeste («non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello»: Ap 21,23) e ora alcuni lineamenti di quella terrestre («le nazioni cammineranno alla sua luce e i re della terra a lei porteranno la loro magnificenza»: 21,24). Però – ed è assai importante notarlo – Giovanni tiene direttamente presente la Chiesa militante, la nostra; parla anche della Chiesa in cielo per indicare quanto già di grandioso possiede la Chiesa sulla terra e quanto di veramente sublime la attende nella visione beatificante di Dio e dell’Agnello in cielo.

Nello scrivere queste pagine immortali, Giovanni si comporta come pastore e profeta e non come sognatore apocalittico. Fortifica la fede e la costanza dei credenti facendo conoscere ad essi la sovrumana dignità che la loro comunità cristiana ha agli occhi di Dio e di Cristo e la meta definitiva alla quale sono destinati.

Dividiamo il tutto in tre parti: il nuovo mondo (Ap 21,1-8); la nuova Gerusalemme che scende dal cielo (21,9-27); la visione beatificante di Dio e dell’Agnello (22,1-5). Le tre parti sono tre riprese esplicative di un messaggio che è unico; sarebbe errato leggerle come se fossero tre realtà che si succedono cronologicamente l’una dopo l’altra.

Nel primo brano Giovanni presenta la nuova creazione dove ha sede la nuova Gerusalemme; riporta una voce dall’alto che proclama la presenza di Dio in mezzo agli uomini; infine, riferisce le affermazioni solenni di Dio stesso.

La letteratura apocalittica parla volentieri di un mondo nuovo, o perché ritiene che il precedente è stato distrutto e ricreato, o perché ha subito modificazioni sostanziali. Il nostro autore si riallaccia a questo modo di esprimersi che indica, in ogni caso, cambiamento radicale. Scrivendo in modo telegrafico: «Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più» (Ap 21,1), Giovanni si ispira alla parte finale del libro di Isaia, dove Dio preannunciava: «Ecco io creo nuovi cieli e nuova terra; non si ricorderà più il passato… poiché si godrà e si gioirà sempre di quello che sto per creare, e farò di Gerusalemme la mia gioia, e del suo popolo un gaudio» (Is 65,17-18; cf. 66,12).

Ma, diversamente da quanto si vorrebbe, Giovanni non soddisfa le nostre curiosità. Segue infatti un modo tradizionale di esprimersi già presente in Isaia, e ancor più nella successiva letteratura apocalittica; se ne serve per presentare messaggi del tutto nuovi, che si riportano al cuore della cristologia e dell’ecclesiologia. Non risponde perciò alle nostre domande: il mondo fisico attuale finirà o subirà solo modifiche? Verrà creato di nuovo e diverso?[1]  Come vedremo man mano, Giovanni vuole affermare la presenza di Dio e dell’Agnello tra quelli che sono già i beati del cielo e quelli che, sulla terra, credono e lottano lungo tutto il tempo della Chiesa. La creazione dei nuovi ambienti, cielo e terra, è in funzione di questa novità di presenza divina, ed esprime tale presenza. Il mare, elemento ritenuto abitualmente infido e pericoloso, cessa di esistere.

Passando a quanto anticipa sulla nuova Gerusalemme – «Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo» (Ap 21,2) – notiamo che Giovanni usa la denominazione «Gerusalemme» solo tre volte nel suo scritto, e le dà sempre valore simbolico. Ecco i tre testi:

Il vincitore lo porrò come una colonna nel tempio del mio Dio e non ne uscirà mai più. Inciderò su di lui il nome del mio Dio e il nome della città del mio Dio, della nuova Gerusalemme che discende dal cielo, da presso il mio Dio, insieme con il mio nome nuovo (Ap 3,12).

Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo (Ap 21,2: il nostro testo).

Poi venne uno dei sette angeli che hanno le sette coppe piene degli ultimi sette flagelli e mi parlò: «Vieni, ti mostrerò la fidanzata, la sposa dell’Agnello». L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio (Ap 21,9-10).

Già nel testo di Is 65,18-25, citato sopra, il profeta non si limita a preannunciare la ricostruzione materiale di Gerusalemme; perché, come in altri casi simili, la realizzazione materiale non esaurisce la ricchezza e l’ampiezza del preannuncio (si pensi al nuovo esodo da Babilonia: Is 43,16-21). Ebbene, il Nuovo Testamento va avanti su questa linea metaforica e – nei nostri tre testi – dà a Gerusalemme valore simbolico. Paolo aveva già abbozzato questo simbolo nella celebre allegoria delle due alleanze (ebraica e cristiana) e dei figli, quello proveniente dalla schiava (Ismaele-Agar) e quello proveniente dalla libera (Isacco-Sara), distinguendo così la «Gerusalemme attuale» da quella di lassù. E affermava: «Invece la Gerusalemme di lassù è libera ed è la nostra madre» (Gal 4,24). In questo modo indicava con Gerusalemme la comunità nata dalle promesse divine («nostra madre») cioè la Chiesa cristiana. Sempre movendosi sulla stessa linea, altrove Paolo parla del cristiano come di un cittadino della Gerusalemme celeste (cf. Fil 3,20; Eb 12,22); quindi la città santa, Gerusalemme, ha solo la funzione di simbolo.

Nei tre testi dell’Apocalisse riportati sopra, Giovanni continua su questa linea metaforica. Dice che il Risorto fa del vincitore come una colonna che sta in continuazione alla presenza di Dio («nel tempio»), e che il Risorto incide su questa colonna il nome di Dio, il suo stesso nome, il nome della nuova Gerusalemme. In altre parole, dice che il battezzato, in quanto rimane fedele al proprio credo, gode di una particolare presenza di Dio e del Risorto nella Chiesa (nuova Gerusalemme), oggi sulla terra, domani nel cielo.

La stessa portata metaforica Giovanni dà a «Gerusalemme» nei due testi di Ap 21. Dice che è «la città santa», cioè la piena realizzazione della Gerusalemme terrena distrutta circa un quarto di secolo prima; dice che scende dal cielo, perché è di natura trascendente; che è la fidanzata (nymfè) e la sposa (gyné) dell’Agnello, cioè che si trova in particolare rapporto di amore col suo Redentore; dice che poggia su dodici basamenti «sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello» (21,14), cioè ha la qualifica di «apostolica»; e dice che, mossa dallo Spirito grida allo Sposo: «Vieni» (22,17)[2].

Giovanni ha così enunciato i due concetti fondamentali della sezione: quello della nuova creazione che, anche se non ripreso, fa da sfondo a tutto ciò che sta per dire; quello della nuova Gerusalemme, che riprende fra poco e con un lungo sviluppo. La novità essenziale – come dirà nel brano che stiamo per leggere – è il fatto che Dio è presente e per questo fa nuove tutte le cose.

 

1.2. IL DIO PRESENTE E LA NUOVA ALLEANZA

La voce potente, che esce dal trono di Dio e che esprime in modo perfetto il pensiero di Dio, si era fatta udire già altre volte: quando preannunciava la rovina di Babilonia (Ap 16,17) e quando chiedeva di lodare Dio in vista delle nozze dell’Agnello (19,5.7). Ora riecheggia di nuovo, per presentare la Gerusalemme simbolica come la dimora di Dio in mezzo agli uomini e per dire che Dio stesso asciuga le lacrime dei suoi credenti.

3Udii allora una voce potente che usciva dal trono: «Ecco la dimora di Dio con gli uomini!

Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il “Dio-con-loro”.

4E tergerà ogni lacrima dai loro occhi;

non ci sarà più la morte,

né lutto, né lamento, né affanno,

perché le cose di prima sono passate» (Ap 21,3-4).

L’affermazione: «Ecco la dimora di Dio con gli uomini!», quanto mai solenne, conclude le tante promesse che l’Antico Testamento fa di una particolare presenza divina che spesso si accompagna alla promessa di alleanza. Vogliamo ripercorrere brevemente questo elemento fondamentale della storia della salvezza, partendo dall’Antico Testamento e raggiungendo il Nuovo Testamento.

Agli ebrei ancora nel deserto Dio preannuncia: «Stabilirò la mia dimora in mezzo a voi e io non vi respingerò. Camminerò in mezzo a voi, sarò vostro Dio e voi sarete mio popolo» (Lv 26,12). Tale promessa si realizza in parte mediante la costruzione dell’arca dell’alleanza, simbolo della presenza di Dio: «Essi mi faranno un santuario e io abiterò in mezzo a loro» (cf. Es 25,8). Ai deportati, Ezechiele rinnova la promessa della presenza di Dio: «In mezzo a loro sarà la mia dimora: io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (Ez 37,27). Il profeta Zaccaria ripete la stessa promessa per invogliare gli ebrei deportati in Babilonia a ritornare nella terra d’Israele: «Gioisci, esulta, figlia di Sion, perché, ecco, io vengo ad abitare in mezzo a te: oracolo del Signore» (Zc 2,14).

La promessa si realizza perfettamente nel Nuovo Testamento. Colui che nasce da Maria viene chiamato, per volere dell’angelo che parla in nome di Dio, «Emmanuele, che significa Dio con noi» (Mt 1,23); ed Emmanuele è la parola ebraica che equivale nella sostanza al «Dio-con-loro» del nostro testo di Ap 21,3. Questa presenza dell’Emmanuele si realizza ogni volta che i credenti sono riuniti fra di loro nel nome di Gesù (cf. Mt 18,20), ogni volta che celebrano l’eucaristia (Mt 26,26-29), lungo tutta l’esistenza della Chiesa fino alla fine dei tempi: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).

Il quarto Vangelo, riprendendo da questa lunga tradizione, sottolinea col verbo «attendarsi», che il tema del Dio presente trova la sua espressione massima nell’incarnazione, nel fatto cioè che il Verbo che era in principio, che era presso Dio, che era di natura divina, si fece carne e «si attendò» (skènòò) in mezzo agli uomini.

Nell’Apocalisse Giovanni è attento al tema della presenza divina e la esprime o col verbo «attendarsi» (skènòò, come in Ap 21,3), o col rispettivo sostantivo «tenda-dimora (skèné, in 21,3)[3].  Inoltre collega espressamente fra loro presenza divina e alleanza. Nel nostro brano usa il formulario, diremmo, classico dell’alleanza: «Essi saranno suo popolo ed egli sarà il “Dio-con-loro”» (21,3), formulario che ripete poco dopo: «Io sarò il suo Dio ed egli sarà mio figlio» (21,7).

In breve, Giovanni – che scrive tra gli ultimi autori del Nuovo Testamento – nel nostro brano lega la presenza divina a tutta la storia della salvezza, all’istituzione fondamentale dell’alleanza, alla presenza divina del Verbo fatto carne nella Chiesa: presenza che – come si ha da altri testi – è quella del Padre, del Risorto, dello Spirito settiforme.

Giovanni dice che la Chiesa terrena – la sua comunità, per la quale egli scriveva, e la nostra, che sta leggendo il suo libro ispirato dell’Apocalisse – è illuminata e vivificata continuamente dalla presenza di Dio, che è presenza di unione mediante l’alleanza. Per lui i cieli nuovi e la terra nuova, la Gerusalemme nuova, sono già, qui sulla terra, nella Chiesa, mentre questa attende la piena glorificazione.

1.3. «Ecco, IO FACCIO NUOVE TUTTE LE COSE»

A questo punto, Dio stesso prende la parola, per la seconda e ultima volta nell’Apocalisse. La prima volta lo aveva fatto in Ap 1,8, quando si era autodefinito: «Io sono l’Alfa e l’Omega… Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!».

5E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose»; e soggiunse: «Scrivi, perché queste parole sono certe e veraci.

6Ecco sono compiute!

io sono l’Alfa e l’Omega,

il Principio e la Fine.

A colui che ha sete darò gratuitamente acqua della fonte della vita.

7Chi sarà vittorioso erediterà questi beni; io sarò il suo Dio ed egli sarà mio figlio.

8Ma per i vili e gl’increduli, gli abietti e gli omicidi, gl’immorali, i fattucchieri, gli idolatri e per tutti i mentitori è riservato lo stagno ardente di fuoco e di zolfo. È questa la seconda morte» (Ap 21,5-8).

Giovanni ode Dio che fa alcune affermazioni.

La prima è questa: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose». Dio che era stato adorato nel suo ruolo di Creatore, ora viene presentato come artefice della nuova creazione. Porta a compimento il nuovo esodo (cf. Is 43,19) che è il rinnovamento radicale dell’uomo mediante Cristo: «Se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate nuove» (2Cor 5,17; cf. Gal 6,15). La «nuova creazione» si realizza con l’appartenenza a Cristo redentore.

La seconda affermazione è il comando che rivolge a Giovanni di scrivere: «perché queste parole sono certe e veraci». Così autentica tutto quello che Giovanni aveva scritto fin qui, o per comando di un angelo (Ap 1,11; 19,9) o per comando di Cristo stesso (1,19). Ora che si è al termine, è Dio stesso che autentica i vari ordini.

La terza affermazione, rilevabile nell’originale greco con un «e mi disse», è particolarmente grandiosa nella sua brevità: «Ecco sono compiute!» (Ap 21,6), che in greco è una sola parola, gégonan, perfetto di gìnomai. E l’annuncio solenne che la nuova creazione è avvenuta ed è in atto; che, quindi, i credenti, fin da ora, sono cittadini della Gerusalemme celeste, partecipi della gloria divina. Naturalmente questa testimonianza può essere accolta su questa terra solo mediante la fede.

Con la quarta affermazione, che serve ad autenticare le precedenti, Dio dà una definizione solenne di se stesso: «Io sono l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine» (Ap 21,6). Si colloca, quindi, dall’inizio (alfa è la prima lettera dell’alfabeto greco) fino alla fine (omega ne è l’ultima) della storia della salvezza; è quanto dice in altro modo con «il Principio e la Fine». È importante rilevare che Giovanni usa questi stessi titoli in riferimento a Cristo, che viene per rendere a ciascuno secondo le sue opere: «Io – dice Cristo – sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine» (22,13). Aggiungiamo che anche i titoli «primo e ultimo» vengono dati a Gesù in 1,17 e 2,6. Da questi casi, e da altri che abbiamo esaminato man mano nei capitoli precedenti, rileviamo che Giovanni sente la forte preoccupazione di sottolineare l’unità di natura tra il Padre e il Figlio, e per questo usa termini interscambiabili per i due.

La quinta affermazione si esprime in un invito: «A colui che ha sete darò gratuitamente acqua della fonte della vita» (Ap 21,6). La frase si ispira a Is 55,1 ma, nella sostanza, continua il tema dell’acqua viva che si ha nei testi giovannei (Gv 4,10-14; 7,37-38) e, con tutta probabilità, si riporta ai sacramenti che danno origine alla vita cristiana e la sostengono; il battesimo e l’eucaristia. Infatti, in un testo, il cui colorito liturgico viene riconosciuto da molti, Giovanni afferma: «Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni ! ”. E chi ascolta ripeta: “Vieni!”. Chi ha sete venga; chi vuole attinga gratuitamente l’acqua della vita» (Ap 22,17). Sono lo Spirito e la sposa, cioè la Chiesa sotto l’azione dello Spirito, che nel corso dei secoli invitano ad attingere all’acqua della vita.

Infine Dio fa questa promessa al vincitore: «Io sarò il suo Dio ed egli sarà mio figlio» (Ap 21,7)[4].  Come abbiamo detto sopra, si tratta di una formula di alleanza. Subito dopo, e forse con nostra sorpresa, lancia minacce contro coloro che si danno ai vari vizi che vengono elencati («i vili e gl’increduli, gli abietti e gli omicidi, gl’immorali, i fattucchieri, gli idolatri e… tutti i mentitori»: 21,8). Questo elenco è uno dei tanti segnali che ci dicono che Giovanni sta parlando della Chiesa coi suoi difetti, quindi della Chiesa sulla terra (cf. ce. 2-3); ma proprio questa Chiesa, che soffre, che è tentata e che cade, riproduce sulla terra la Chiesa della gloria celeste.

1.4. CONCLUSIONE

Nel brano che abbiamo visto Giovanni concentra l’attenzione totalmente su Dio, artefice della nuova creazione e della nuova Gerusalemme, presente in mezzo ai cristiani come il Dio realizzatore della nuova alleanza e come colui che dà il giusto premio al vincitore. Però, dal momento che usa termini interscambiabili tra Dio e Gesù Cristo, Giovanni fa ritenere che, pur parlando qui solo di Dio, ha presente anche Gesù Cristo. Parlerà esplicitamente delle due persone divine nel brano che segue.

 

  1. LA NUOVA GERUSALEMME

Giovanni riprende per un attimo il tema della fidanzata-sposa dell’Agnello (cf. Ap 21,2) e poi subito dopo lo lascia. Passa così dalla fidanzata-sposa alla simbolica «città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio». È quest’ultimo – la Gerusalemme che scende dal cielo – un tema classico nella tradizione apocalittica e Giovanni lo tratta in modo ampio e approfondito. Rapito in Spirito egli vede le mura della città (Ap 21,12-14), si fa un’idea delle dimensioni della città e delle mura (21,15-17), elenca i materiali con i quali le mura sono state innalzate (21,18-21), constata che la città non ha un tempio (21,22-23) e osserva il continuo fluire dei popoli pagani nella città santa (21,24-27). Noi riproduciamo parte di questa grandiosa descrizione simbolica.

2.1.  LA NUOVA GERUSALEMME E I DODICI APOSTOLI DELL’AGNELLO

Un angelo, con in mano le sette coppe piene degli ultimi sette flagelli (cf. Ap 15,1.7), aveva già fatto vedere a Giovanni «una donna seduta sopra una bestia scarlatta, coperta di nomi blasfemi… ammantata di porpora e di scarlatto, adorna d’oro, di pietre preziose e di perle… Babilonia la grande, la madre delle prostitute e degli abomini della terra» (17,3-5); un angelo ora gli fa vedere «la fidanzata, la sposa dell’Agnello… la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio» (21,9-11). È evidente che Giovanni abbozza un contrasto tra Babilonia, la grande meretrice, e la nuova Gerusalemme, «madre dei santi e immagine della città superna» (A. Manzoni); ma non lo continua.

Ispirandosi a vari testi del Secondo Isaia e ad Ez 40-48, Giovanni porta avanti la descrizione della città simbolica, insistendo più sulle mura che sulla città stessa.

9Poi venne uno dei sette angeli che hanno le sette coppe piene degli ultimi sette flagelli e mi parlò: «Vieni, ti mostrerò la fidanzata, la sposa dell’Agnello». 10L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. 11Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino. 12La città è cinta da un grande e alto muro con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. 13 A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e ad occidente tre porte. 14Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello (Ap 21,9-14).

Si tratta – lo ripetiamo – della Chiesa pellegrinante che l’autore sacro illumina con gli splendori della Chiesa trionfante; che poggia sui dodici basamenti che sono i dodici apostoli dell’Agnello (Ap 21,14); che, insieme allo Spirito e quale sposa dell’Agnello, implora il ritorno dello Sposo (22,17).

Per presentare la Chiesa nella sua realtà più profonda Paolo era ricorso all’immagine del «corpo di Cristo» (cf. ICor 11,16-17; 12). Qui Giovanni ricorre all’immagine della fidanzata (cf. già 2Cor 11,2) e sposa, immagine carica di genuini sentimenti di amore.

Per dissuadere il lettore dal ricorrere con la mente alla Gerusalemme terrena, Giovanni presenta la sua Gerusalemme nuova come un cubo perfetto e ricorre al numero simbolico di 144.000 che ha già usato. «La città è a forma di quadrato, la sua lunghezza è uguale alla larghezza. L’angelo misurò la città con la canna: misura dodici mila stadi; la lunghezza, la larghezza e l’altezza sono eguali» (Ap 21,16). Una città di forma cubica è un assurdo architettonico e pratico; d’altra parte però il cubo è simbolo di perfezione che sta ad indicare ciò che è perfetto: in qualsiasi modo lo metti rimane sempre uguale.

2.2.  L’ONNIPOTENTE E L’AGNELLO SONO IL suo TEMPIO

Dopo aver fatto – in funzione simbolica – l’elenco dei materiali più preziosi coi quali è costruita la città (Ap 21,18.21), Giovanni va avanti nella sua descrizione simbolica, dicendo che Dio e l’Agnello sono il tempio di quella città:

22Non vidi alcun tempio in essa perché il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio. 23La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello.

24Le nazioni cammineranno alla sua luce e i re della terra a lei porteranno la loro magnificenza.

25Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, poiché non vi sarà più notte.

26E porteranno a lei la gloria e l’onore delle nazioni.

27Non entrerà in essa nulla d’impuro,

né chi commette abominio o falsità,

ma solo quelli che sono scritti

nel libro della vita dell’Agnello (Ap 21,22-27)

La costruzione del tempio ad opera di Salomone aveva segnato un punto di partenza importantissimo nella storia religiosa d’Israele. Verso quel luogo santo andavano le speranze più profonde di tutto Israele. È quanto attestano i libri biblici dell’Antico Testamento, sia di genere storico che profetico; alcuni salmi cantano con accenti di profonda religiosità il tempio in quanto luogo della presenza di YHWH in mezzo al suo popolo. Era il tempio che dava la qualifica di «santa» a Gerusalemme[5].

Giovanni, dicendo che non vide nella città santa alcun tempio, presenta una forte rottura con il passato, rottura che a noi forse può sfuggire. Nello stesso tempo fa due affermazioni: alla città la presenza divina è tuttavia assicurata e in modo più valido; tale presenza divina si realizza, in modo nuovo e perfetto, mediante Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello, che sostituiscono il tempio.

Mettendo da parte la grandiosa presentazione letteraria, che è propria a Giovanni, il messaggio della presenza di Dio e di Gesù tra i redenti, e – in altri testi, numerosi – dello Spirito Santo, nella Chiesa come nel singolo credente, si riscontra sia negli scritti paolini (cf. per es., 1Cor 3,16-17; 6,19; 2Cor 6,16) che in quelli giovannei (cf. Gv 14,17.23) e sinottici (Mt 28,20). Nell’Apocalisse Giovanni riprende e porta avanti questo messaggio di fondo del Nuovo Testamento, inserendolo nella cornice della Gerusalemme che scende dal cielo.

L’autore aggiunge anche un tocco ecumenico e universalistico: «le nazioni cammineranno alla sua luce… le sue porte non si chiuderanno mai» (Ap 21,24.25; cf. Is 60,3.5.11). Quindi, sarà meta dell’intera umanità e non solo del popolo ebraico.

2.3.  Dio E L’AGNELLO NELLA COMUNITÀ DEI REDENTI

A questa Gerusalemme simbolica, Giovanni collega il nuovo paradiso che sostituisce e porta a compimento quanto veniva detto del paradiso terrestre:

1Mi mostrò poi un fiume d’acqua viva limpida come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello. 2In mezzo alla piazza della città e da una parte e dall’altra del fiume si trova un albero di vita che dà dodici raccolti e produce frutti ogni mese; le foglie dell’albero servono a guarire le nazioni.

3E non vi sarà più maledizione.

Il trono di Dio e dell’Agnello

sarà in mezzo a lei e i suoi servi lo adoreranno;

4Vedranno la sua faccia e porteranno il suo nome sulla fronte.

5Non vi sarà più notte

e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli (Ap 22,1-5).

 

Ricorrendo all’immagine del fiume d’acqua viva e limpida che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello Giovanni si richiama a Ez 47,1-12. In questo brano il profeta parla di acqua miracolosa che sgorga al lato destro del tempio di Gerusalemme, che poi, crescendo in quantità, vivifica nel suo corso quella zona desolata che gli arabi oggi chiamano Wadi en-Nar, «torrente di fuoco», con la crescita di alberi che danno frutti ogni mese; acqua che infine sfocia nel Mar Morto rendendolo pieno di vita. Inoltre, si richiama a Gen 2,8-17 che descriveva il paradiso terrestre dei progenitori. Tuttavia, in quanto affianca il testo di Genesi a quello di Ezechiele, Giovanni dice chiaramente che non vuole parlare di un semplice ritorno al paradiso passato di Adamo ed Èva, ma al paradiso futuro, del cielo. È in questo paradiso celeste che i redenti godranno, in tutta la sua pienezza, la presenza del «trono di Dio e dell’Agnello», ricordata per ben due volte in questo breve brano (Ap 22,1.3).

Ma Giovanni dice che, già fin d’ora, sulla terra, i cristiani possiedono, nella sostanza, tale paradiso; perché nella fede essi hanno parte a una speciale comunione con Dio e con l’Agnello. Giovanni aveva riferito questa promessa del Risorto: «Il vincitore lo porrò come una colonna nel tempio del mio Dio e non ne uscirà mai più. Inciderò su di lui il nome del mio Dio e il nome della città del mio Dio, della nuova Gerusalemme che discende dal cielo, da presso il mio Dio, insieme con il mio nome nuovo» (Ap 3,12). Il credente, che non si lascia vincere dal male, sa di essere in rapporto particolare col Dio presente («nel tempio del mio Dio»); di appartenere al suo Dio e all’Agnello redentore («porteranno il suo nome sulla fronte»); di essere cittadino del cielo («la nuova Gerusalemme che discende dal cielo»). Giovanni aveva anche visto «l’Agnello-ritto sul monte Sion e insieme centoquarantaquattromila persone che recavano scritto sulla fronte il suo nome e il nome del Padre suo» (Ap 14,1). I battezzati, in quanto sono «gli illuminati» (Eb 6,4; 10,32), partecipano fin d’ora della luce di Dio; regnano nei secoli dei secoli, a partire dal tempo presente, perché Colui che ci ama ha fatto di noi un regno (Ap 1,6; 5,10; 20,6).

 

CONCLUSIONE

Facciamoci contagiare dall’entusiasmo soprannaturale che Giovanni ha per la Chiesa umile, discriminata e perseguitata del suo tempo, e di tutti i tempi, e che esprime e canta con tanta efficacia in queste pagine! Il cielo scende sulla comunità terrena e si fonde con essa! Riscopriamo, nella lode riconoscente, la dimensione escatologica come componente essenziale della Chiesa che ci accoglie e che ci unisce al mondo divino del Padre, dell’Agnello e dello Spirito Santo. Per due volte qui l’Agnello viene messo sullo stesso piano di Dio (Ap 22,1.3).

Preghiera

La Chiesa, fidanzata e sposa dell’Agnello

Signore Gesù, con la tua presenza, universale (cf. Mt 28,20) e sacramentale (cf. Mt 26,26-29), in mezzo a noi, quale Agnello immolato e, nello stesso tempo, glorioso, il cielo si unisce alla terra e la Chiesa diventa percorso per raggiungere il cielo.

Chiesa «fidanzata, sposa dell’Agnello» (Ap 21,9).

Chiesa «apostolica» perché le sue mura hanno come fondamento ultimo te, poggiano su dodici basamenti che portano «i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello» (Ap 21,14).

Chiesa «fiume d’acqua viva limpida come cristallo, che scaturisce dal trono di Dio e dell’Agnello» (Ap 22,1); «trono di Dio e dell’Agnello» (22,3); vero tempio perché in essa «il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio» (21,22); «non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello» (22,23).

«Di noi tutti abbi misericordia: donaci di aver parte alla vita eterna, insieme con la beata Maria Vergine e Madre di Dio con gli apostoli e tutti i santi, che in ogni tempo ti furono graditi, e in Gesù Cristo tuo Figlio canteremo la tua gloria (Preghiera eucaristica II).

Riflessione Gioia di tutti

 

Come descrivere, alla luce della rivelazione e della tradizione, la gloria celeste che il Signore ci riserva? Ecco un testo di san Tommaso d’Aquino:

«Quando saranno compiuti tutti i nostri desideri, cioè nella vita eterna, la fede cesserà. Non sarà più oggetto di fede tutta quella serie di verità che nel Credo si chiude con le parole: “vita eterna. Amen”.

La prima cosa che si compie nella vita eterna è l’unione dell’uomo con Dio.

Dio stesso, infatti, è il premio e il fine di tutte le nostre fatiche: “Io sono il tuo scudo, e la tua ricompensa sarà molto grande” (Gen 15,1). Questa unione poi consiste nella perfetta visione: “Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa, ma allora vedremo faccia a faccia” (1Cor 13,12).

La vita eterna inoltre consiste nella somma lode, come dice il Profeta: “Giubilo e gioia saranno in essa, ringraziamenti e inni di lode” (Is 51,3). Consiste ancora nella perfetta soddisfazione del desiderio. Ivi infatti ogni beato avrà più di quanto ha desiderato e sperato. La ragione è che nessuno può in questa vita appagare pienamente i suoi desideri, né alcuna cosa creata è in grado di colmare le aspirazioni dell’uomo. Solo Dio può saziarlo, anzi andare molto al di là, fino all’infinito. Per questo le brame dell’uomo si appagano solo in Dio, secondo quanto dice Agostino: “Ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore è senza pace fino a quando non riposa in te”.

I santi, nella patria, possiederanno perfettamente Dio. Ne segue che giungeranno all’apice di ogni loro desiderio e che la loro gloria sarà superiore a quanto speravano. Per questo dice il Signore: “Prendi parte alla gioia del tuo padrone” (Mt 25, 21); e Agostino aggiunge: “Tutta la gioia non entrerà nei beati, ma tutti i beati entreranno nella gioia. Mi sazierò quando apparirà la tua gloria”; e anche: “Egli sazia di beni il tuo desiderio”. Tutto quello che può  procurare felicità, là è presente e in sommo grado. Se si cercano godimenti, là ci sarà il massimo e più assoluto godimento, perché si tratta del bene supremo, cioè di Dio: “Dolcezza senza fine alla tua destra” (Sal 15,11)[6].

La vita eterna infine consiste nella gioconda fraternità di tutti i santi. Sarà una comunione di spiriti estremamente deliziosa, perché ognuno avrà tutti i beni di tutti gli altri beati. Ognuno amerà l’altro come se stesso e perciò godrà del bene altrui come proprio. Così il gaudio di uno solo, sarà tanto maggiore quanto più grande sarà la gioia di tutti gli altri beati».6

 

 

LO SPIRITO E LA SPOSA DICONO: «VIENI!»

La conclusione dell’Apocalisse Ap 22,6-21

Giovanni si accinge a portare a termine il suo scritto. Con una conclusione piuttosto complessa, egli si riallaccia a quanto ha scritto nel prologo, specificandolo e completandolo; ma getta anche uno sguardo di valutazione su tutto il suo libro. Dato che si concentra su Gesù che «viene presto» – tema che ripete per ben tre volte (Ap 22,7.12.20) -, noi, seguendo questo tema, divideremo l’intera periope in tre parti: «ecco verrò presto» (vv. 6-11); «verrò presto e porterò con me il mio salario» (vv. 13-20); «vieni. Signore Gesù» (v. 22,21).

 

  1. ECCO, VERRÒ PRESTO

Il brano è formato da tre brevi interventi. All’inizio parla l’angelo; poi è Giovanni stesso che parla in prima persona; infine, è l’angelo che riprende la parola.

6Poi mi disse: «Queste parole sono certe e veraci. Il Signore, il Dio che ispira i profeti, ha mandato il suo angelo per mostrare ai suoi servi ciò che deve accadere tra breve. 7Ecco, io verrò presto. Beato chi custodisce le parole profetiche di questo libro».

8Sono io, Giovanni, che ho visto e udito queste cose. Udite e vedute che le ebbi, mi prostrai in adorazione ai piedi dell’angelo che me le aveva mostrate. 5Ma egli mi disse: «Guardati dal farlo! Io sono un servo di Dio come te e i tuoi fratelli, i profeti, e come coloro che custodiscono le parole di questo libro. È Dio che devi adorare».

10Poi aggiunse: «Non mettere sotto sigillo le parole profetiche di questo libro, perché il tempo è vicino. 11Il perverso continui pure a essere perverso, l’impuro continui ad essere impuro e il giusto continui a praticare la giustizia e il santo si santifichi ancora» (Ap 22,6-11).

A dire il vero, all’inizio non viene detto esplicitamente chi sta parlando, che, di per sé, potrebbe essere Gesù stesso in base al versetto precedente. Si può ritenere che sia un angelo (cf. Ap 21,9), portavoce del volere di Dio. Le parole che l’angelo rivolge a Giovanni attestano la piena approvazione dell’intero libro dell’Apocalisse (cf. 21,5), e non una sola sua parte. L’autore, infatti, ha raccolto il messaggio che Dio comunica, mediante l’angelo, ai suoi servi e riguardante ciò che deve accadere «fra breve». Aveva iniziato il suo scritto servendosi di un «fra breve» (1,1), ora lo conclude con un «fra breve»: fuori di questi due casi l’espressione non ricorre più nell’Apocalisse!

Ebbene, ciò che deve accadere «fra breve» è il ritorno di Cristo: «Ecco verrò presto!» (Ap 22,7). A questo suo ritorno ci si prepara praticando quanto è richiesto nel libro dell’Apocalisse. Giovanni aveva dichiarato beato chi legge e ascolta le parole di questo scritto (1,3). Ora, richiamandosi a quella beatitudine, ne riporta un’altra che, come la prima, fa parte di un dialogo liturgico: «Beato chi custodisce le parole profetiche di questo libro» (22,7). Per sottolinearne l’importanza, questa volta non la dice in prima persona, ma la mette in bocca a un angelo o a Gesù stesso. Giovanni vuole ora dire all’ascoltatore: impegnati a ricordare e a praticare quanto hai già ascoltato, perché si tratta di «parole profetiche» che annunciano il ritorno di Cristo.

Nel suo intervento, Giovanni conferma le parole di approvazione che l’angelo ha dato al suo scritto, affermando che ha visto e udito quelle cose che ha scritto. Dice di aver ricevuto rivelazioni; dà ad esse un valore rivelatorio.

L’angelo riprende la parola e comanda a Giovanni di non mettere sotto sigillo il suo scritto (come invece gli era stato ordinato in Ap 10,4); ne dà la ragione, dicendo che il tempo è vicino. Rileva che tale tempo – secondo la tradizione apocalittica (Dn 12,10) – esige una forte decisione morale.

Come la presenza del Figlio dell’uomo doveva portare le sette Chiese di Ap 2-3 alla verifica morale, e come il Cavaliere presente e potente doveva rialzare e sostenere la speranza dei credenti e coinvolgerli nella vittoria (Ap 19), così ora l’attesa del ritorno di Cristo deve fondare l’impegno morale cristiano mediante l’ascolto e la pratica della parola profetica.

 

  1. VERRÒ E PORTERÒ CON ME IL MIO SALARIO

I versetti che seguono riportano l’intervento di Gesù stesso, che è fondamentale ed è anche il più lungo nella sezione; a questo segue, per lunghezza, quello minaccioso dell’autore del libro; poi, rapidissimi, quello dello Spirito e della sposa, quello di chi ascolta. Viene da pensare che il brano riproduca frammenti di una celebrazione liturgica.

12«Ecco, io verrò presto e porterò con me il mio salario, per rendere a ciascuno secondo le sue opere. l3Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine. 14Beati coloro che lavano le loro vesti: avranno parte all’albero della vita e potranno entrare per le porte nella città. l5Fuori i cani, i fattucchieri, gli immorali, gli omicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna!

16Io, Gesù, ho mandato il mio angelo, per testimoniare a voi queste cose riguardo alle Chiese, lo sono la radice della stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino» (Ap 22,12-16).

Il lungo e importante intervento di Gesù non riguarda la conclusione del libro – conclusione che dopo Ap 22,7 viene ripresa in 22,18-19 -, ma il tema di fondo dell’intera Apocalisse che è quello del Signore che viene, tema che l’autore vuole ribadire e ricapitolare in modo nuovo. Gesù ritorna come giudice, per premiare o per punire: per dare a ciascuno secondo le sue opere (cf. 2,23).

Per giustificare questo suo compito, Gesù continua facendo una sua prima autopresentazione grandiosa, con tre coppie di titoli cristologici che fanno percepire la sua divina personalità. Egli è «l’Alfa e l’Omega…, il principio e la fine» proprio come Dio stesso (Ap 1,8; 21,6); inoltre egli è «il Primo e l’Ultimo», titoli che Giovanni aveva già dato a Cristo (1,17; 2,8). Queste tre coppie sono quasi sinonime; ma la loro ripetizione ne accentua il contenuto di fondo, riguardante il fatto che Gesù racchiude nella sua persona – come Dio Padre – il passato, il presente e il futuro, come anche contiene la realizzazione del progetto divino di salvezza.

Non lasciamoci sfuggire questo messaggio teologico: anche qui Gesù viene messo sullo stesso piano di Dio e in forma tale che – salvo altri testi della stessa Apocalisse – non ha riscontro nel resto del Nuovo Testamento.

Ebbene, questo «Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, della stessa sostanza del Padre», si presenta anche quale Redentore dell’umanità.

E quanto Gesù afferma nell’ultima beatitudine dell’Apocalisse: «Beati coloro che lavano le loro vesti: avranno parte all’albero della vita e potranno entrare per le porte nella città» (Ap 22,14). Cioè, sono in situazione di felicità soprannaturale coloro che Gesù Cristo purifica e salva mediante il sacramento del battesimo e li introduce nella Chiesa. Al battesimo fanno rimando le parole: «lavano le loro vesti». Infatti credenti, candidati alla gloria, sono coloro che «hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello» (7,14), che è l’Agnello immolato (5,6). Sono i vincitori ai quali Gesù ha conferito i segni della salvezza: «Il vincitore sarà dunque vestito di bianche vesti, non cancellerò il suo nome dal libro della vita, ma lo riconoscerò davanti al Padre mio e davanti ai suoi angeli» (3,5). Sono coloro ai quali, io, il Risorto, «darò da mangiare dell’albero della vita, che sta nel paradiso di Dio» (2,7). Inoltre, il «Dio da Dio» introduce nella Chiesa dove egli è continuamente presente e operante: «potranno entrare per le porte nella città»; e le mura di tale città, come veniva detto sopra, «poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello» (21,12).

In breve, la più alta dottrina cristologica si affianca alla dottrina della salvezza nella Chiesa. Inoltre, non viene dimenticato l’impegno personale: «Fuori i cani, i fattucchieri, gli immorali, gli omicidi, gli idolàtri e chiunque ama e pratica la menzogna!» (Ap 22,15).

Continuando la sua autopresentazione e preparando la ripresa della conclusione, Gesù afferma che è lui l’ispiratore della rivelazione che Giovanni ha ricevuto: «Io, Gesù, ho mandato il mio angelo, per testimoniare a voi queste cose riguardo alle Chiese» (Ap 22,16). Invece in 1,1 la rivelazione proveniva dal Padre, passava per Gesù Cristo e veniva comunicata a Giovanni dall’angelo: anche questo è uno dei tanti casi nei quali i ruoli del Padre e del Figlio sono interscambiabili.

Gesù si dà anche due autodefinizioni: «Io sono la radice della stirpe di Davide», con chiaro rimando alla sua discendenza davidica (Is 11,1; cf. Ap 5,5); poi afferma: «[Io sono] la stella radiosa del mattino». Rivendica, cioè, per sé la preannunciata dignità messianica; infatti «la stella» rimanda alla profezia che Balaam aveva fatto riguardo al Messia (Nm 24,17). Ma fa questo richiamo per coinvolgere i credenti in lui in questa sua dignità; è quanto si rileva dalla specificazione «del mattino», perché il mattino precede il giorno, quello della Chiesa e quello della gloria. Siamo sulla linea di quanto il Risorto aveva promesso al vincitore: «Darò a lui la stella del mattino» (Ap 2,28).

Da parte sua, Giovanni è ben cosciente – caso unico nella Bibbia – dell’autorevolezza del suo libro; forse è cosciente del carisma

dell’ispirazione biblica che possiede. Lo dice con tono minaccioso: «Dichiaro a chiunque ascolta le parole profetiche di questo libro: a chi vi aggiungerà qualche cosa, Dio gli farà cadere addosso i flagelli descritti in questo libro; e chi toglierà qualche parola di questo libro profetico, Dio lo priverà dell’albero della vita e della città santa, descritti in questo libro (Ap 22,18-19).

 

2.2. Lo SPIRITO E LA SPOSA DICONO: VIENI

Alle due autopresentazioni di Gesù seguono le richieste dello Spirito e della sposa, di chi ascolta e di chi vuole attingere l’acqua della vita:

Lo Spirito e la sposa dicono: «Vieni!». E chi ascolta ripeta: «Vieni!». Chi ha sete venga; chi vuole attinga gratuitamente l’acqua della vita (Ap 22,17).

Insomma, tutti chiedono una comunione più profonda e vitale con Gesù!

Lo Spirito, persona della Trinità (Ap 1,4-8), mette in comunicazione l’uomo col soprannaturale, col divino. È quanto fa nei riguardi di Giovanni, che viene (rapito) «in Spirito» nel giorno di domenica (1,10), che gli rende possibile salire in cielo davanti al trono di Dio (4,2) e vedere la nuova Gerusalemme che scende dal cielo (21,10). Nello stesso tempo, lo Spirito è sempre in rapporto con la persona e l’opera di Gesù e col suo messaggio (cf. 2,7.11.17.29; 3,6.13.22)[7].

In Ap 22,17 lo Spirito Santo muove la sposa, cioè la Chiesa, che certo si è preparata per le nozze e che è già sposa dell’Agnello, perché porti avanti e migliori il suo rapporto con Gesù. Non è ancora perfetta! Gesù, nella sua funzione di giudice, ha detto che verrà presto e porterà con sé il suo salario «per rendere a ciascuno secondo le sue opere» (22,12). Ha detto anche che vengono messi «fuori i cani, i fattucchieri, gli immorali, gli omicidi, gli idolàtri e chiunque ama e pratica la menzogna!» (22,15).

Animata dall’azione dello Spirito, la Chiesa, con slancio di fede, chiede a Gesù che venga per rendere più solida e perenne la comunione dei credenti con lui.

A questa profonda brama di comunione mediante la grazia è chiamato ad aspirare chiunque ascolta la lettura del libro dell’Apocalisse. Sotto l’azione dello Spirito, l’assemblea liturgica nella sua totalità e nei singoli che la compongono sproni se stessa alla fedeltà e alla maggiore unione con Cristo. Occorre solo andare a lui, attingere gratuitamente dalle fonti della salvezza.

In breve, il Signore promette di venire con tutto il suo splendore divino e con tutta la ricchezza della redenzione. Animati dallo Spirito i cristiani devono accoglierlo con generosità ed eroismo.

 

  1. AMEN. VIENI, SIGNORE GESÙ!

20Colui che attesta queste cose dice: «Sì, verrò presto!». Amen. Vieni, Signore Gesù. 21La grazia del Signore Gesù sia con tutti voi. Amen! (Ap 22,2021).

In queste battute finali del libro, Gesù in persona prende la parola per l’ultima volta e attesta che verrà presto: «Sì, verrò presto». A questa sua ferma promessa segue l’amen di gioiosa accettazione dell’assemblea e la calda implorazione perché Gesù venga. Il tutto si chiude con una formula epistolare con l’augurio della grazia divina sui destinatari, e con un secondo amen[8].

L’invocazione «Vieni, Signore Gesù», che qui è in lingua greca, si richiama senza dubbio alla corrispondente invocazione aramaica conservata da Paolo. L’apostolo, autenticando la sua lettera con alcune righe che scrive di proprio pugno, esorta: «Se qualcuno non ama il Signore sia anatema. Marana tha» (1Cor 16,22). Nella trascrizione riportata, marana tha propriamente significa: «Signore nostro, vieni»; però si potrebbe fare quest’altra divisione delle sillabe, cioè maran atha, e in questo caso verrebbe a significare: «Il Signore nostro venne», oppure «viene». Però, sia la resa in greco di Ap 22,21, sia altri argomenti possibili, fanno propendere per la prima trascrizione con la traduzione: «Signore nostro, vieni».

Importante è chiedersi: qual è stata la sede vitale di una tale invocazione, che doveva essere comunissima nella Chiesa apostolica, tanto che veniva compresa nella sua forma aramaica? La Didachè (10,6), uno scritto degli inizi del secondo secolo cristiano, la colloca nel contesto della celebrazione eucaristica: «Venga la grazia e passi questo mondo: marana tha (o murari atha). Amen». Lo stesso clima spirituale della celebrazione deve aver fatto nascere l’invocazione, quando cioè la comunità celebrante avvertiva in modo forte la presenza di Cristo nel sacramento e implorava la sua venuta nella gloria: «Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga» (ICor 11,26). Si può ritenere che un contesto liturgico celebrativo sia all’origine del dialogo finale del nostro testo. Sia l’amen di Ap 22,20 – purtroppo mancante in molti codici – che i frammenti di dialogo disseminati in 22,6-20 confermano questa ipotesi.

In breve, la promessa di Gesù, che viene e che viene presto, e l’invocazione della Chiesa, mossa dallo Spirito, perché venga in modo che si realizzi una piena comunione con lui, compendiano le linee fondamentali dell’Apocalisse.

 

Preghiera Vieni, Signore Gesù!

Signore Gesù, hai detto: «Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine» (Ap 22,13). Tu racchiudi nella tua persona il tempo e l’eternità, il punto di partenza e lo scopo ultimo dell’uomo e del creato.

Affermi ancora: «Io sono la radice della stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino» (Ap 22,16). Nella tua persona unisci il passato della promessa (Davide) con il presente del compimento (la stella radiosa del mattino) che mi salva.

Dammi la grazia di fare mie le due ultime beatitudini dell’Apocalisse: «Beato chi custodisce le parole profetiche di questo libro» (Ap 22,7), e «Beati coloro che lavano le loro vesti: avranno parte all’albero della vita e potranno entrare per le porte nella città» (22,14).

Signore Gesù, introducimi nel mistero della tua presenza. «Se non ti ravvederai verrò a te e rimuoverò il tuo candelabro dal suo posto» (Ap 2,5); «Ravvediti dunque; altrimenti verrò da te presto» (2,16); «Se non sarai vigilante, verrò come un ladro senza che tu sappia in quale ora io verrò da te» (3,3); «Ecco sto alla porta e busso…» (3,20).

«Verrò presto» (Ap 22,7.12.20).

Illumina la mia mente con la luce del tuo Spirito perché io mi renda conto che la tua presenza e le tue venute richiedono sempre la mia collaborazione nella fede e nelle opere.

 

Riflessione Lo Spirito Santo e la Chiesa

Raccogliendo il messaggio della Bibbia e della Tradizione, il Vaticano li presenta lo Spirito Santo come Colui che santifica la Chiesa e la conduce alla perfetta unione col suo Sposo:

«Compiuta l’opera che il Padre aveva affidato al Figlio sulla terra (cf. Gv 17,4), il giorno di Pentecoste fu inviato lo Spirito Santo per santificare continuamente la Chiesa, e i credenti avessero così per Cristo accesso al Padre in un solo Spirito (cf. Ef 2,18). Questi è lo Spirito che dà la vita, o la sorgente di acqua zampillante per la vita eterna (cf. Gv 4,14; 7,38-39); per lui il Padre ridà la vita agli uomini, morti per il peccato, finché un giorno risusciterà in Cristo i loro corpi mortali (cf. Rm 8,10-11).

Lo Spirito dimora nella Chiesa e nei cuori dei fedeli come in un tempio (cf. 1Cor 3,16; 6,19) e in essi prega e rende testimonianza dell’adozione filiale (cf. Gal 4,6; Rm 8,15-16.26). Egli guida la Chiesa verso tutta intera la verità (cf. Gv 16,13), la unifica nella comunione e nel servizio, la provvede di diversi doni gerarchici e carismatici, coi quali la dirige, l’abbellisce dei suoi frutti (cf. Ef 4,11-12; 1Cor 12,4; Gal 5,22).

Con la forza del vangelo fa ringiovanire la Chiesa, continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione col suo Sposo. Poiché lo Spirito e la sposa dicono al Signore Gesù: Vieni! (cf. Ap 22,17)».

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[1] Neppure soddisfa la nostra curiosità quanto leggiamo in 2Pt che riprende Is 65,17 e 66,12. L’autore invita i cristiani ad attendere e ad affrettare «la venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli si dissolveranno e gli elementi incendiati si fonderanno! – Poi continua – E poi, secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e una nuova terra, nei quali avrà stabile dimora la giustizia» (2Pt 3,12-13). Questa specificazione della fine del mondo mediante il fuoco che distrugge cielo e terra rimane del tutto isolata nel Nuovo Testamento; e chi scrive la lettera non è tanto preoccupato del modo di tale fine, quanto della ripresa del fervore e della speranza dei cristiani ai quali si stava rivolgendo.

[2] In Ap 3,12 Gerusalemme viene qualificata come «nuova»; l’aggettivo si ritrova in 21,1.2 per i cieli «nuovi» e la terra «nuova» come anche per la Gerusalemme «nuova». Questa novità proviene dalla grazia della redenzione: è il Risorto che dà un «nome nuovo» (2,17; 3,12); è all’Agnello immolato che viene innalzato un «canto nuovo» (5,9; 14,3). Gerusalemme, cioè la comunità cristiana, è «nuova» proprio perché riscattata con il sangue dell’Agnello.

[3] II verbo skènòò, «attendarsi», si ha solo nel quarto Vangelo e nell’Apocalisse (Gv 1,14; Ap 7,15 «per Dio»); Ap 12,12 e 13,6 «esseri celesti»; 21,3 «Dio». Il sostantivo skèné nell’Apocalisse si ha in 13,6; 15,5; 21,3

[4] Negli scritti giovannei (eccetto Gv 20,17) la parola Padre è riservata al solo rapporto di Gesù con Dio (Ap 1,6; 2,28; 3,5.21; 14,1). Per questo in Ap 21,7 si legge «Dio» invece di «Padre». Per Gesù, che è alla pari di Dio, Dio gli è Padre in maniera unica e irripetibile.

[5] G. Crocetti, Accostiamoci a Lui per rendergli grazie. I Salmi e il culto a Dio presente nel Tempio, Ancora, Milano 1995

[6] Tommaso d’Aquino, Conferenze sul Credo: Opuscula theologica 2, Torino 1954, 216-217. Dalla Liturgia delle Ore, IV, 504-505.

[7] Per uno sguardo d’insieme sullo Spirito Santo nell’Apocalisse si veda Crocetti, Il Vangelo dello Spirito Santo, 277-285.

 

[8] L’«amen» di Ap 22,21 manca in molti codici; alcune edizioni critiche lo omettono.

[8]                    Concilio Vaticano II, costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, n. 4; EV 1/287.